SAREMO TUTTI FAMOSI

“In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes” Così scrisse Andy Warhol, nel marzo 1968, a Stoccolma per il catalogo di una mostra al Moderna Museet. 

Al giorno d’oggi sembra essere una profezia. In un mondo che segue le logiche dei social, la democratizzazione dei processi comunicativi, ha reso il successo alla portata di tutti.


Ma è quello che Warhol si aspettava?

Nel 1968, l’anno di Woodstock e della contro-cultura, forse l’intento dell’artista era quello di porre la sua arte in polemica contro l’arte tradizionale dei musei, ma, soprattutto, contro l’avanguardismo post-bellico che lui stesso aveva contribuito a creare e di cui, ambiguamente, voleva distaccarsene. Ognuno in futuro sarà famoso per 15 minuti, per lui, equivaleva quasi a dire che presto forse non lo sarà più nessuno veramente. Con l’inizio della globalizzazione, la fama non è più un bacio misterioso della fortuna, merito del genio o dell’intraprendenza, ma un calcolato prodotto del mercato. Oggi potremmo dire di un algoritmo. Warhol, su questo, è stato un visionario. Ma come è cambiato il concetto di fama nella storia e cosa vuol dire oggi essere famoso? Provo a fare qualche libera associazione mentale usando la frase di Warhol. Parto dalla fine della frase: i quindici minuti. È un limite contraddittorio, perché nel concetto stesso di fama si nasconde la sfida al tempo che consuma tutto. Va detto che per Warhol è ancora intatto l’assunto che la fama dell’artista è l’unica fama possibile, per quanto confuso sia il significato di arte e di artista al suo tempo. L’ideale rimane quello di buona parte della cultura occidentale: il mito oraziano del «monumentum aere perennius» (“monumento più duraturo del bronzo” Od.III,30,1), perorato nei secoli da molti artisti e poeti. Da Dante a Shakespeare, da Michelangelo, a Beethoven; l’arte ha sempre provato a sconfiggere la morte. Certamente lo aveva in mente anche Warhol, che aveva fatto del suo corpo un oggetto d’arte per provare ad eternarsi.


Al tempo stesso, a tutti gli artisti è sempre stato chiaro che questa fosse solo un’illusione. Nella cultura occidentale, infatti, l’idea di fama ha avuto pure le sembianze di una chimera passeggera, perché illude l’uomo di non essere mortale, senza esserlo davvero. Anche questo è un topos letterario che attraversa i secoli.

Per Pindaro, uno dei massimi esponenti della lirica corale greca, l’uomo è «il sogno di un’ombra» (“σχιας οναρ ανθρϖπος” trasl. “skias onar antropos” PIT. VIII, 95-6). Nella cultura greca, infatti, la mortalità è l’unica categoria che permea tutte le faccende umane: qualsiasi momento di gloria è concepibile solo nel suo essere transitorio. È un battito d’ali verso il divino, nel folle volo di Icaro, «progenie di un giorno» (Pind. PIT. VIII 93). Non è diverso il pensiero nella cultura latina, dove la fama è spesso intesa come causa di turbamento dell’animo. Chi sogna la gloria assoggetta la propria felicità individuale alla vaghezza della fortuna e agli effluvi del potere («res est inquieta felicitas» Sen., Ep.Luc. IV, 36, 1-2). Secoli dopo, anche Dante, di certo conscio del suo valore, ma figlio prediletto del suo tempo tutto teso al giudizio divino, ammonisce l’uomo sui pericoli della fama terrena («Non è il mondan romore altro che’un fiato // di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, // e muta nome perché muta lato.» PURG. XI, 100-102).

I quindici minuti di Warhol hanno, dunque, un’ambivalenza ironica perché strizzano l’occhio al concetto di fama come luce eterna, quella dell’artista, ma, al tempo stesso, seguono il precetto di fama come menzogna che illude e irretisce i sensi. A parte l’ironia, dunque, nulla di nuovo.


La faccenda nuova invece sta nell’incipit: «in futuro, ognuno sarà famoso». Certamente, anche qui c’è dell’ironia. L’artista poneva l’accento sui nuovi fenomeni di comunicazione dei quali, già all’epoca, se ne intuiva la portata innovativa: l’invenzione della televisione e quindi della pubblicità stavano rendendo l’arte un fenomeno commerciale globale ed industriale. Ma la materia, per Warhol era sempre maneggiata da artisti.  

Se la caliamo ai giorni nostri, la materia si sfalda e si sfilaccia come un tessuto lavato male in lavatrice. I social hanno senza dubbio modificato il DNA dell’arte e della fama, inserendo dei nuovi elementi. Ne osservo tre, che posso definire dei nuovi archetipi: la stringatezza, l’immediatezza e il calcolo.

Partiamo dalla stringatezza.

Il primo archetipo è facile da intuire e si riferisce a tutte quelle regole formali con le quali i social gestiscono l’enorme mole di dati che contengono. Sono tutte regole che agiscono sul tempo e il tempo influisce essenzialmente sulla forma del contenuto stesso. Il sistema ti da un tempo per creare e fornisce al pubblico lo stesso tempo per fruire; il tempo è poco così che i contenuti si possano moltiplicare a dismisura. La calamita della novità non perde la sua tenacia e il pubblico rimane incollato al sistema. Cosa succede dunque alla forma? La forma si estremizza. Non faccio l’influencer e chi lo fa potrebbe obbiettare che alla fine se un contenuto è di qualità i risultati di pubblico e la fama arrivano, senza bisogno di esagerare. È vero. Nessuno, tuttavia, avrebbe da obiettare se dicessi che i contenuti più frequentati sono quelli che suscitano emozioni forti e bisogni primordiali, cioè quelli più facilmente decodificabili in poco tempo. Tette, soldi, ricette, botte e cagnolini. Performance. L’incredibile e l’esagerato sono alla base della velocità di interpretazione e la velocità è una conseguenza della stringatezza. Se bisogna catturare l’attenzione in poco tempo è necessario urlare per essere ascoltati. Il nuovo archetipo della stringatezza ha creato la cornice dell’ululato.

Poi c’è l’immediatezza.

La tecnologia della rete mette in mano a chiunque, la possibilità di una fama planetaria nel giro di poche ore. Michelangelo ci ha messo quasi due secoli per essere conosciuto in tutto il mondo. Oggi un sassofonista che suona con le scoregge potrebbe essere conosciuto in buona parte del mondo nel giro di venti giorni, forse meno. Questa velocità di diffusione ha pompato l’ego di chi raggiunge il successo, in maniera inversamente proporzionale al tempo in cui lo raggiunge. L’idea di aver avuto qualche fallimento, anche grosso, e poi di aver svoltato, di aver fatto il botto, porta con sé la presunzione di essere diversi, di essere più grossi, più importanti, più potenti degli altri che non ce l’hanno fatta. Il successo si misura in haters, in “ciao poveri”, in “portami rispetto”. Questo meccanismo oltre ad aver creato presunzione e guerra sociale, ha distaccato l’artefice dall’artefatto, la fama dall’affamato. L’opera d’arte sei solo tu, il tuo profilo, la tua community, non più quello che fai. Si è perso il senso poietico, cioè l’idea della cosa, della materia, della sperimentazione, della sfida con l’eterno. L’interesse è concentrato unicamente nella fama del subito. L’archetipo dell’immediatezza ha creato la fama del niente.

L’ultimo archetipo è quello che personalmente mi atterrisce di più: il calcolo.

Il sistema dei numeri (likes, commenti, visualizzazioni) ha reso quantificabile il gradimento, affidando alla matematica il valore della fama. È un valore indiscutibile perché è suggellato non solo dall’algoritmo, ma anche dal pubblico e soprattutto dal mercato, che investe sulla fama per vendere. Per la prima volta nella storia, il mercato ha contezza dell’investimento promozionale e può pagare i creators con la certezza di un ritorno quantificabile. Questo fenomeno ha generato uno studio meticoloso dei contenuti e delle forme che generano i trend, portando la creazione all’imitazione di massa. In futuro tutti imiteremo i quindici minuti di fama di qualcuno e saremo famosi anche noi. Ecco ciò che forse neanche Warhol aveva considerato. Scrive Bauman: «lo spettacolo è una copia della realtà, ma è una copia così convincente che la realtà deve emularla» («La solitudine del cittadino globale», ed. Feltrinelli 2018, pag.73). L’archetipo del calcolo ha cancellato il rischio dell’avanguardia, raccontando a tutti che una bomba nuova sta per arrivare, ma senza farla esplodere mai.

Queste considerazioni sembrano chiacchiere sclerotiche di un vecchio al bar. Forse lo sono, ma sono soprattutto considerazioni del tutto personali su fenomeni sui quali spesso mi interrogo, come fruitore e anche come creatore di contenuti artistici.

In conclusione, mi chiedo come si fa a capire chi è veramente degno di fama. Io, con molte difficoltà, provo a mantenermi parte attiva nei giudizi dati dal pubblico, guardo i cellulari degli altri, leggo molto e provo a seguire chi mi regala il sentimento di un percorso più che l’emozione di un orgasmo. Non è sicuramente una ricetta universale e forse non è neanche una ricetta, ma è un metodo per capire chi resta dopo i quindici minuti.